Di Carmela D’Auria

A Fulgenzia. Fulgenzia ha novantasei anni, mani forti e callose grazie alle quali ha cresciuto e fatto studiare nove figli ora tutti professionisti, che non sono mai riusciti a portarla via da quella casa al confine tra la Provinciale e l’Ofanto, dove ha seppellito suo marito e due dei suoi figli troppo presto, e quattro galline che al calar del sole prendono posto sul vecchio divano ricoperto dalla coperta che lei stessa ha fatto all’uncinetto, con tante toppe colorate, dove tutte la mattine le lasciano le loro uova quotidiane, come pegno di gratitudine.In queste giornate strane, in cui tutto si è interrotto, il tempo, come scriveva Pennac, si sta dilatando, trovando spazio per le promesse, come quella fatta a Fulgenzia, di andare a farle visita, quando l’ho incontrata la prima volta nel Pronto Soccorso, dove io ero in preda a quella che poi si è scoperta una colica da calcoli biliari e lei dolorante per una caduta mentre potava le viti; rottura del femore, praticamente.- Eh, signorì, so cazzi! Vui teniti ‘a facci ra colicà – mi garantì, dopo avermi scrutata bene. E aveva avuto ragione.La strada per arrivare a casa sua è proprio come lei la aveva descritta con amore: all’inizio di marzo i ‘maccaruni’ sui noccioli, pendono come glicini, il grano ha cambiato sfumatura di verde, il fiume si è ingrossato, a causa delle piogge e copre i ciottoli degli argini, cullandoli. La sua proprietà e delineata dal confine in fil di ferro, oramai arrugginito, ma ancora tenace, ricoperte di edera, arbusti di biancospino e tralci di vitaglie, buone per la frittate.Lei era nell’orto, intenta nei sui intenti contadini e non si è nemmeno accorta di chi fosse arrivato. Solo le galline, sbattendo forte le ‘scelle’, quando mi hanno visto, si sono accodate, in fila per una, per raggiungerla, come fiere annunciatrici ufficiali, davanti a me.- Fulgenzia, Fulgenzia… – ho chiamato, ma nessuna risposta.Sono rimasta a osservarla per un po’.Con un braccio sosteneva la stampella, con l’altro la zappa: infilava la stampella nel terreno, facendo tanti buchi in fila, che riempiva con dei semi, infine con l’altro braccio, scavava una piccola zolla con la zappa e ricopriva i buchi. In seguito mi ha spiegato che quelli erano semi di zucchina, interrati e coperti con una bottiglia di plastica, tipo effetto serra, per essere protetti dal gelo invernale.Un’idea geniale e riclabile.Solo lo stornazzare delle galline, che ormai la avevano raggiunta, l’ha distota dalle sue ambasce e finalmente mi ha vista.Ha lasciato gli arnesi, stampella compresa e affondando gli stivali di gomma di almeno tre numeri più grandi, nel terreno fangoso, mi è venuta incontro.Contenta e commossa, si è asciugata le mani con il ‘sinale’, nella cui grande tasca custodiva i semi, che si sono rovesciati tutti, con lo stesso si è sfregata gli occhi umidi e soffiato il naso, poi mi ha stretto le guance con le dita e mi ha dato un fragoroso bacio, lasciandomi dei segni sulla faccia, che prontamente ha cercato di cancellare col medesimo.Come glielo dico, ora, che è contravvenuta a gran parte delle ordinanze ministeriali?

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