Ritorniamo puntualissimi con la nostra mini-rubrica di psicologia “SorrendenteMente” parlando di un argomento che ritroviamo in diverse occasioni della vita: l’effetto cocktail party.

È capitato a tutti di trovarsi in un contesto affollato con molti suoni e rumori, ma di riuscire a distinguere la voce di un interlocutore anche in uno scambio di battute momentaneo. Ciò avviene perché il nostro ascolto è selettivo e, a tale proposito, vi esorto a leggere gli studi e gli esperimenti effettuati da alcuni ricercatori del Mit (Massachusetts Institute of Techology), in collaborazione con l’Università del Sussex.

Fu lo studioso cognitivo inglese Colin Cherry che negli anni 5 coniò il termine effetto cocktail parti per spiegare “fenomeno della capacità di concentrare la propria attenzione uditiva su un particolare stimolo, filtrando una serie di altri stimoli, allo stesso modo in cui un partecipante a una festa può concentrarsi su una singola conversazione in una stanza rumorosa”. La cosa si spiega in quanto il nostro cervello possiede due zone volte all’integrazione dei segnali uditivi, cioè la corteccia uditiva primaria che percepisce i suoni “sentendoli” e la corteccia uditiva secondaria che si occupa di analizzare i dati giunti alla primaria “interpretandoli”. Non me ne vogliano gli esperti del campo, ma sarò estremamente sintetica usando parole povere, atte a semplificare il concetto. In soldoni, durante una festa, un concerto o comunque in un contesto come quello descritto pocanzi, la corteccia primaria ascolta e percepisce tutte le voci i rumori ed i suoni e la corteccia secondaria “seleziona quelli di nostro interesse “scartando” il resto. Quindi, ciò che non risulta di nostro interesse, viene azzerato: perciò si dice “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. L’effetto cocktail party, dunque, è un esempio di attenzione selettiva, che non solo permette di focalizzarsi su una sola fonte sonora, come la voce di un amico, ma offre la possibilità di individuare parole “importanti” nello stesso contesto anche qualora gli stimoli fonte non siano il fulcro della nostra attenzione. L’esempio più facile che mi sovviene è la situazione in cui, concentrati su altra conversazione, ci giriamo quando udiamo pronunciare il nostro nome da qualcuno che non abbiamo nemmeno visto, percependo e rilevando un suono che ci interessa.

Già negli anni 50, con i sui esperimenti, Cherry rilevò che la capacità umana di “separare i suoni dal rumore di fondo è influenzata da molte variabili, come il sesso di chi parla, la direzione da cui proviene il suono, l’altezza e il ritmo del discorso”. Successivamente, molte sono state le teorie avanzate su questo argomento, ma quella che voglio riportare riguarda il modello di Anne Treisman che ha sviluppato uno studio sull’attenuazione. Secondo la studiosa, quando l’informazione è elaborata attraverso un meccanismo filtrante, non è completamente bloccata, come suggerito precedentemente da Broadbent, ma viene solo attenuata cosi che possa comunque passare attraverso tutte le fasi di elaborazione ad un livello inconscio. Rispetto a quanto riportato pocanzi, sulle parole-chiave come il nostro nome, Treisman, a tal proposito, parlò di un “meccanismo di soglia” per cui alcune parole, basato sull’importanza semantica, ove le stesse possono “catturare l’attenzione dal flusso non presidiato”. Seguendo le affermazioni di Treisman, dunque, il nostro nome ha un “valore di soglia basso” ossia un alto livello di significato, motivo per cui viene percepito e riconosciuto più facilmente.

Ciò detto, concludo con un concetto che potete completare da soli . visto che, come finora esplicitato, codifichiamo bene ciò che ci interessa, quando non ricordate il nome di una persona che vi è stata presentata, sappiate che non avete un problema di memoria, bensì non avete prestato attenzione, oppure…

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