Per la mini-rubrica SorprendenteMente, oggi vi parlerò del cambiamento e del difficile percorso che serve per raggiungerlo.

Il cambiamento è qualcosa che spaventa. Anche quando è notevolmente desiderato, spaventa. Tanto. Perché? Per rispondere a questo dobbiamo partire dal perché si cambia. Le risposte sono tante, ma le più “oneste” sono per necessità, per sopravvivenza e per tutela. Non è mai facile, però, fare “quel passaggio” che conduce alla scelta sana.

Mi spiego meglio. La maggior parte delle persone si sente rassicurata dalle abitudini in quanto un certo tipo di routine dà la fittizia sensazione di avere “tutto sotto controllo”. Siccome si preferisce “muoversi” in una situazione conosciuta, ci si adatta alla stessa, anche se fortemente disfunzionale e ci si convince sempre di più che “vada bene”, che sia “la norma” o che “non ci sia altra soluzione”. Ed è così che ci si ritrova in un pantano ove si preferisce affogare pur di non tentare qualcosa di diverso. Sappiate che non vi è nulla di più pericoloso del “abbiamo sempre fatto così”. Ci vuole coraggio per mettere tutti in discussione e soprattutto se stessi, ma, come dico sempre, il coraggio non è assenza di paura: è fare qualcosa nonostante si abbia paura.

Cambiamento significa uscire da una relazione tossica, eliminare comportamenti disfunzionali e autosabotativi e, soprattutto, modificare l’approccio verso se stessi e verso il mondo esterno. Il primo passo fondamentale è la presa di coscienza del disagio. È molto difficile staccarsi dalla situazione e dal disagio stesso, divenuto, ormai, una componente integrante del fardello che si è scelto di portare. Raggiunta la consapevolezza, ci vuole la “spinta al cambiamento” e questa si ottiene con un “clic” fragoroso che avviene nella relazione intrapsichica quando si approfondisce con onestà il momento introspettivo. Capita sovente dopo l’ennesima “batosta” che l’individuo percepisce come il “toccare il fondo”. La bella notizia è che “dal fondo” si può solo risalire. Per quanto, però, si abbia la voglia e la necessità di uscire fuori dal lup disfunzionale, a volte ciò non basta. Per tale motivo, non bisogna temere o “vergognarsi” di confidarsi con qualcuno e, soprattutto, rivolgersi a dei professionisti: il lavoro di squadra funziona! E per darvi ulteriore sputo di riflessione, riporto una parabola raccontata dallo psichiatra J. Twerski che con parole semplici, spiega una realtà complessa.

L’aragosta è un animale soffice, molle, che vive all’interno di un guscio rigido. Questo rigido guscio non si espande. Allora, come fa l’animale a crescere? Beh, con la crescita dell’aragosta, quel guscio diventa estremamente limitante e l’aragosta si sente sotto pressione, a disagio. Così si nasconde sotto una roccia, per proteggersi dai pesci predatori, si libera dal guscio e ne produce uno nuovo. Con il tempo e con la crescita anche questo guscio diventa scomodo, così torna sotto la roccia e ripete. L’aragosta ripete questo processo più volte. Lo stimolo che permette all’aragosta di crescere nasce da una sensazione di disagio. Ora, se le aragoste avessero dei dottori, non crescerebbero più, perché al primo segnale di disagio l’aragosta andrebbe dal dottore a prendersi un Valium o un antidolorifico e si sentirebbe bene: non si libererebbe mai del proprio guscio.
Quindi, credo che sia ora di capire che i momenti difficili sono anche i momenti di crescita maggiore, che non fanno altro che aiutarci; se mettiamo a buon uso le avversità, possiamo crescere grazie a esse
”.

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