L’anima in guerra: quando la coscienza vibra per l’orrore

Elena Opromolla
Ex docente di Lingua e letteratura italiana i miei interessi sono molteplici e spaziano dall'attualità, alle recensioni, dalla politica agli eventi culturali. Ho conseguito diversi premi letterari e ho partecipato a festival del libro nazionali e internazionali.
Le immagini fosche delle guerre alle porte dell’Europa annebbiano il nostro quotidiano. Rischiamo di subirle, ritenendole inevitabili, come se i conflitti fossero l’unica soluzione nei contrasti tra Stati.
Abituarci a tutto questo sarebbe come morire dentro. Non possiamo girare lo sguardo dall’altra parte, né premere un tasto sul telecomando per distrarci da quello che accade in Ucraina, nella Striscia di Gaza o in altri luoghi di dolore. Non possiamo ignorare le stragi che si consumano davanti ai nostri occhi impotenti.
Cosa accade in una persona quando la paura della guerra inonda la sua anima? Proviamo ad immedesimarci nella protagonista del breve testo narrativo di seguito riportato, intitolato Un’anima in guerra di Elena Opromolla
“La stanza era al buio e da uno spiraglio indistinto tra le imposte trapelava la luce del giorno. L’ambiente era immerso nell’oscurità, illuminata appena da quel bagliore disperso. S’era incantata ad osservare il pulviscolo danzante che s’intravedeva lungo la traiettoria di quel sottile fascio di luce. Quei corpuscoli uniformi di materia polverizzata compivano nell’aria movimenti incessanti, seguendo la melodia del silenzio.
Il buio avvolgeva ogni cosa, anche il suo corpo, ma lei non aveva paura. Anzi, quell’oscurità l’aiutava ad isolarsi un po’; le piaceva starsene lì tutta sola, rannicchiata contro la parete, le gambe flesse da abbracciare, lo sguardo incantato verso la polvere ballerina in controluce, che la distraeva da quelle immagini terribili trasmesse in tv di là, nella grande cucina di casa.
Aveva ancora negli occhi e nelle orecchie quegli echi di guerra che qualche minuto prima il giornalista televisivo aveva annunciato. S’era pietrificata dinanzi allo schermo, sentiva la sua anima in guerra, come se il pericolo dei bombardamenti fosse imminente; come se quella guerra che minacciava uno stato asiatico stesse per dilaniare anche il suo Paese, l’Italia.
Piombò in un’angoscia avvolgente come uno scudo di acciaio e, come pietrificata, era rimasta attonita di fronte a quegli aerei che decollavano e atterravano in un ronzio di motori su portaerei gigantesche, sulla lastra piatta del mare. Echi di guerra, un terrore recondito, ancestrale, folgorante, la sommerse nei pensieri di morte, morte incombente, morte annunciata. Sua madre e i suoi fratelli percepirono la sua agitazione interna e spensero il televisore, quel maledetto scatolone che incupiva quotidianamente chi l’ascoltava.
Come in trance, con il pensiero memore di ciò che aveva visto, s’era messa a sedere in camera da pranzo, lo sguardo fisso, affondato in un’ansia insopportabile: non riusciva ad esprimersi, non riusciva a proferir parola.
Si ritrovò in un rifugio antiatomico a venti metri di profondità: la sua anima era in guerra. Altri occhi sbarrati dall’orrore e storditi dalla paura foravano il buio incombente. Il cuore nelle orecchie, un desiderio struggente ed impotente di non essere lì, il dolore lancinante per essere invece lì, la immobilizzavano: era convinta di morire.
Sua madre, suo padre, sua sorella dov’erano? Pervasa da un’ansia indicibile, morì a se stessa, immerse la sua mente altrove, dove nessuno e niente potevano affondarla. Alte valli montane, cieli cristallini e prati infiniti assorbivano i suoi occhi, la sua mente, il suo spirito. Poi l’alito del vento sulla pelle, le pieghe della gonna sulle ginocchia, la riportarono sulla terra.
Si accorse della presa d’aria del rifugio che alitava sul suo viso e della coda del gatto sulle ginocchia. Si accovacciò e nel buio afferrò Chicca, la gatta di casa. L’abbracciò e scaricò su di essa la sua tensione. Ritornò la luce nel rifugio; spettri d’uomini e di donne rosi dalla sua stessa paura. Sola tra loro, coperta da una coltre giallognola, si avviò verso l’uscita: il pericolo, per il momento, era passato. Le restava ora l’inquietudine per il destino dei suoi cari. Percorse adagio le lunghe scale a chiocciola, strette ed opprimenti, fino al sole; un sole annebbiato da un sottile strato di nubi.
Vide case dilaniate, tetti divelti, finestre spappolate, muri anneriti e avviliti dalla furia delle esplosioni, calcinacci ovunque e pali della luce pericolosamente inclinati. Corpi maciullati, scarpe anonime e deformate sparpagliate nei vicoli stretti. Uno scenario che le tolse il respiro e svenne. Il buio coprì le sinapsi della sua coscienza ed un turbine di suoni e voci la inghiottì. Sentì il suo corpo sollevarsi e volare giù, giù da dove non ritornò più.
Ecco quel buio della camera dove si era rifugiata: l’avvolgeva e la proteggeva da quell’angoscia di morte. La sua sensibilità la danneggiava, la rendeva fragile, preda dei suoi pensieri e delle sue impressioni, delle sensazioni che il mondo le restituiva. La furia della guerra annientava la logica della vita e la prospettiva temporale in cui essa può avere un senso.
Le voci dei genitori la scossero da quel torpore in cui il timore, il terrore forse vissuto in un’altra vita, l’aveva avvinta come in un sortilegio improvviso. La vita adesso la richiamava da un passato probabilmente non vissuto, ma che albergava dentro di lei, in un meandro del suo ego dolente, in cui il dolore del mondo s’era sedimentato. Uscì dal guscio di quel buio col viso tirato ed impallidito, abbracciò la madre e lentamente le pieghe del suo animo commosso si distesero in una serenità che solo il contatto con la donna che le aveva dato la vita poteva darle.”
Quella ragazza rappresenta tutti coloro che vivono nell’ansia di un mondo che sembra aver perso ogni direzione. L’anima in guerra, che vibra per il terrore che la stessa parola genera, non è solo la sua, ma quella di noi tutti che ancora ci angosciamo e ci interroghiamo. Ogni volta che lo sgomento ci afferra in una stretta, davanti ad un notiziario; ogni volta che il dolore altrui ci paralizza, stiamo reagendo alla violenza.
E allora, anche nella paura, anche nell’impotenza, conservare la sensibilità diventa un atto di resistenza e di non assuefazione.
Dalla capacità di non abituarci mai alla guerra, continuando a sperare e costruire un mondo di pace, potrebbe forse nascere un nuovo umanesimo.
Elena Opromolla
In quella stanza buia, la ragazza ha trovato la luce: nel pulviscolo danzante, nell’abbraccio della gatta Chicca, nel calore finale delle braccia materne. Forse è proprio questo il segreto: anche nei momenti più difficili, la vita ci offre sempre piccoli bagliori di bellezza e tenerezza. La nostra sensibilità, lungi dall’essere una condanna, è il ponte che ci collega gli uni agli altri, che ci permette di riconoscere il bello anche nel buio.
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