Massimo Bonetti: tra il fascino del passato e i nuovi orizzonti
Massimo Bonetti, un volto e una voce che hanno segnato il cinema e la televisione italiani, si racconta in un’intervista intima e profonda. Dai primi passi mossi sotto la guida di Sergio Citti fino al legame indissolubile con Massimo Troisi, passando per la sua lunga esperienza sul set de La Squadra e il suo amore per il teatro, l’attore ripercorre una carriera ricca di successi e affetti.
Gli esordi e il cinema di Citti
Massimo, la tua carriera è iniziata sotto la guida di un maestro come Sergio Citti, in film iconici come Casotto. Com’è stato l’approccio al cinema in quegli anni d’oro, e che ricordo hai di quell’esperienza formativa, soprattutto in un cast così stellare?
«I miei esordi non potevano essere migliori. Da una parte in teatro con Strehler, dall’altra in film iconico come Casotto, diretto da Sergio Citti, in cui ho avuto un cast stellare con Michele Placido, Gigi Proietti, Ugo Tognazzi e una giovane, ma già affermata, Jodie Foster, reduce dall’affermazione di Taxi Driver. Avere attorno a me quei giganti in un film che sarebbe poi diventato un cult mi ha dato una grande consapevolezza: avevo delle chance di entrare nei giri giusti.»

L’amicizia con Massimo Troisi
Hai condiviso un percorso artistico e umano profondo con Massimo Troisi. Dal tuo punto di vista, com’era Massimo sul set? C’è qualche aneddoto o momento particolare che vi lega al di là del lavoro, e cosa pensi che la sua figura abbia lasciato al cinema italiano?
«Quando parlo di Massimo non lo chiamo mai per cognome, perché per me è stato seriamente un fratello. Ci siamo conosciuti quando lui era reduce dal successo incredibile di Ricomincio da tre e anch’io avevo acquisito una buona fama dopo il film per la TV Storia d’amore e d’amicizia di Franco Rossi. È stato facile diventare amici: dopo esserci stretti la mano e fatti i primi complimenti, mi disse che aveva in mente un soggetto e che mi avrebbe visto bene nel ruolo di uno dei due protagonisti.
Chiaramente sto parlando di Le vie del signore sono finite, il ruolo a cui sono più legato per tutta una serie di motivi: dall’amicizia con Massimo al fatto che si tratta di un film di qualità e poesia estrema. Tra la sua proposta e la realizzazione del film passarono tanti anni, ma, considerando il risultato, direi che ne è valsa la pena.

Un aneddoto che mi lega a lui è di natura calcistica: nella nostra amicizia, fatta di tante serate, di ragazze e amici, eravamo divisi fondamentalmente dal tifo sfegatato che lui faceva per il Napoli e io per la mia Roma, anche se devo dire che lui era più tifoso di me. Il Napoli divenne presto la mia seconda squadra, per l’affetto che provavo per lui. Durante una stagione calcistica, il Napoli andò a giocare proprio a casa della Roma, ma tra le due squadre c’era un dislivello enorme: la mia era una “Rometta”, la sua era il Napoli di Maradona, quindi era sicuro della vittoria dei suoi beniamini. Lo invitai allo stadio, ma non volle venire, e così ci demmo appuntamento a casa sua alla fine della partita. Incredibilmente la Roma vinse al novantesimo con un gol di Völler, e pensai che Massimo si sarebbe dispiaciuto tantissimo, tanto è vero che esultai di meno. Per addolcire la giornata gli portai una torta realizzata per metà con i colori giallorossi e per metà con quelli azzurri. Andai a bussargli, sulle prime non mi apriva, poi mi sibilò al citofono un lapidario “Facite schifo” e non volle vedermi. Il nipote Stefano Veneruso anni dopo mi rivelò che Massimo lo aveva incaricato di andare a comprare bandiere, trombette e maglie azzurre per accogliermi con sberleffi dopo la sicura vittoria del Napoli: per questo, oltre che per la sconfitta, era così arrabbiato. Il giorno dopo mi chiamò, gli era sfumata la rabbia, mangiammo la torta e la nostra amicizia continuò come prima.»

La Squadra e il legame con Napoli
Per molti, sei diventato un volto familiare grazie a La Squadra. La serie ha mostrato una Napoli lontana dagli stereotipi, con le sue complessità e la sua umanità. Che esperienza è stata per te girare in questa città? Che rapporto hai sviluppato con Napoli e il suo territorio durante le riprese?
«Gli anni de La Squadra sono stati anni incredibili per me. Arrivò un successo popolare, poi fu un’opportunità di lavoro davvero importante con otto stagioni e oltre 250 episodi girati. Ma per me fu anche il modo di legarmi ancora di più a un territorio magico come quello della Campania e di Napoli, per me una delle città più belle del mondo, unica in ogni aspetto, dai palazzi agli scorci alle donne. È stato un periodo meraviglioso anche per le amicizie, tra cui quella nata tra me e il produttore Gigi De Rosa, un altro mio fratello napoletano. Dire che mi sento in parte napoletano è poco: metà del mio cuore batte laggiù.»

Il teatro e la televisione
Hai alternato cinema, teatro e televisione. C’è un’arte che senti più tua, o un mezzo che ti ha permesso di esprimere maggiormente la tua versatilità? C’è qualche ruolo che ti è rimasto particolarmente nel cuore?
«Il cinema e il teatro mi hanno dato tanto e la mia carriera mi sembra compiuta e, in qualche modo, nella sua irregolarità, mi somiglia. L’unico rimpianto è un ruolo che per una serie di motivi non riuscirò più ad avere, quello di Rugantino, per me sarebbe stato importante perché la romanità è un tratto distintivo del mio essere. Questo è l’unico, piccolo rimpianto che ho.»

I progetti futuri e le nuove sfide
Dopo una carriera così ricca, quali sono i tuoi prossimi progetti? C’è un tipo di ruolo che ti piacerebbe ancora interpretare o un genere che non hai ancora esplorato a fondo e che ti incuriosisce particolarmente?
«Tra i lavori che sto seguendo adesso c’è, sempre per quel filo che mi lega a Massimo, il ruolo nel film Gli anni del padre per la regia di Stefano Veneruso, suo nipote, e anche perché la sceneggiatura è curata da Anna Pavignano, già compagna e autrice di tutti i film di Troisi.»

Recentemente Bonetti è stato protagonista anche in L’invisibile filo rosso di Alessandro Bencivenga, il film con cast stellare che include Ornella Muti, Lello Arena e altri grandi nomi del cinema italiano, presentato con successo alla Mostra di Venezia. Un’opera che, come suggerisce il titolo, rappresenta perfettamente l’essenza della carriera di Bonetti: quel filo invisibile ma tenace che collega ogni sua scelta artistica in un percorso di rara autenticità.
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